Il ritorno del dio Portuno (racconto di Manlio Brunetti)

Le ore passavano e il fiume, un pò magro per l'estate ma sempre un gran bel fiume, scendeva di un passo tranquillo, riposato. Era giunta sotto quello che oggi è Corinaldo. Ma Portuno conosceva a memoria quei luoghi e gli bastava un indizio qualunque, non aveva bisogno di regolarsi sul profilo dei municipi o dei castelli sotto i quali passava, per capire a quale punto fosse dell'intero percorso. E il castello che poi fu Corinaltum egli non si ricordava che già esistesse al tempo che era stato mandato in pensione; di laggiù, oltre tutto, nemmeno si sarebbe visto, un pò più in basso com'era, e piuttosto sull'altro versante, della cresta collinare. Ma ora la pianura si allargava come mai prima e questo era il segno che si era dalle parti a lui più care: quella del suo tempio. I poggi infatti oramai dirupavano abbastanza ripidi, coperti di folta macchia; e più vicino ad essi che non al fiume gli avevano, qualche secolo prima, innalzato l'edificio sacro. A cui lo sguardo: anche se non lo sapeva, le cataratte alla sua età (si trattava, si capisce, di sospensione fangosa!) recavano un gran fastidio. Ma evidentemente non era per quelle che non vedeva il tempio. Continuò a scendere, e intanto il sole calava (e lui ignorava l'ingiunzione "fermati o sole" che aveva regalato ad altri, dopo il tramonto, tutta la luce occorrente per completare, quell'assassino servitore del suo dio, la strage dei nemici). "Quando sarò sulla retta del mio tempio, invece che di traverso", pensava, "non potrà nascondermisi". Aveva però fatto i conti senza l'oste. Come non essersene accorto subito? Quant'è vero che, se uno non se l'aspetta e non ci pensa affatto, non vedrebbe nemmeno una montagna. "Ahi, ahi, ahi" udì se stesso imprecare innervosito. "E chi ce l'avrà messo, quello!". Tra lui e il pedecollina c'era tutto un gran bosco (quello del quale avrebbe parlato, ma molti secoli dopo, Vincenzo Cimarelli che di fantasie utili a certe sue ipotesi non era affatto parsimonioso). Mai avrebbe potuto vedere dall'alveo del fiume il tempio, se fra i due c'erano tutti quegli alberi. Cercò un'ansa per sostare a riflettere. Per sua fortuna la pendenza si riduceva sensibilmente e così egli prese a zigzagare pigramente fra le sponde. C'erano buche profonde e larghe ch'egli riempì e dalle quali tracimava così esile da coprire a malapena la ghiaia del greto. Ma si ricordava che più giù il dislivello sarebbe ripreso, aumentando fino ad una cascata di tre alti scalini; e decise che li avrebbe saltati l'indomani. Adesso gli bastava un buon gorgo in cui lasciar passare la notte senza affrettati progressi. Non fece caso di essere capitato sotto una naturale palafitta: sopra di lui c'era l'esteso groviglio delle poderose radici che uscivano dai pedali di quattro enormi cerri, disposti a quadrato su di una groppa sporgente un poco oltre l'argine. E per via di quella travatura non vide che l'intreccio dei rami e dell'edera formava, sopra, fra i tronchi, una sorta di capannaccia. Ma poi sentì venirne una voce, e gli si chiarì il mistero. Era la dimora notturna della maga Portunilla, custodita di giorno dai sospiri angosciosi di barbagianni bacucchi e dal ciaccolare incessante di alcune ghiandaie, dal miagolare disumano di gatti selvatici neri e da una famiglia d'istrici dagli aculei irresistibili. Nessuno ci si avvicinava; ma lei, Portunilla, la conoscevano tutti nel raggio di venti chilometri e tutti ne parlavano ma sempre non più di due alla volta e badando bene che nessuno altro stesse ad ascoltare: capace di predire il futuro, di fare e guastare malocchi e fatture, di tirar su stomaci, di riattaccare ossa rotte, di far morire o di guarire con erbe e succhi di serpi e scorpioni. Così dicevano in giro, e che derivava i suoi poteri dalle arcavole che erano state sacerdotesse e prostitute sacre del tempio di Portuno...; non ci credevano i nuovi sacerdoti (cristiani) che però non potevano impedire alla gente di ricorrere a lei di nascosto quando non serviva più di rivolgersi ad alcun altro; i meno fanatici tra loro pensavano che quella povera vecchia non potesse fare di altro da quello che la residua superstiziosità pagana della gente le attribuiva e chiedeva (era sempre vero che la fede sposta le montagne). Se poi Portunilla credesse, essa stessa, a quando di lei si diceva, chi poteva giudicarlo? Il fatto è, comunque che aveva una sensibilità straordinaria: una specie di congenita sintonizzazione con tutta la natura. Quella notte ebbe appunto l'impressione che lo "spirito del fiume", ossia il vecchio Portuno, chissà per quale sortilegio o incomprensibile miracolo, fosse ritornato. Girando fra i cespugli lungo l'argine proprio alla fine del bosco, per certe erbe officinali che davano il loro meglio se colte durante il novilunio (quando solo l'olfatto registrava le differenze), fu presa da un tremito che era il segnale di presenza di qualcosa di preternaturale. Si sporse sull'acqua e sussurrò:
"Portuno, Portuno, sei tu?"
- Chi sei che mi chiami?